giovedì 8 marzo 2007

Il Brandy italiano ritorna ed è invecchiato

Da: ilsecoloxix.it
Il Brandy italiano ritorna ed è invecchiato
E' una lunga storia, legata alla tecnica della distillazione e alla produzione di "aqua vitae", di cui si ha traccia nelle tradizioni medievali della viticoltura ecclesiastica. Ma è a partire dal XVI secolo che è possibile documentare ricerche che conducono alla nascita del Brandy in Italia. Nel 1583 il Duca di Savoia accordò la prima licenza per la produzione di Brandy nel ducato, produzione che successivamente venne regolamentata e sviluppata. Nella prima metà dell'800, ad esempio, il "Cognac Viérge" prodotto in Italia da Benjamin Ingham e da Joseph Withaker era molto conosciuto: all'epoca il Brandy di qualità veniva ovunque chiamato Cognac, anche se la provenienza non era francese. Solo il poeta Gabriele D'Annunzio, agli inizi del secolo scorso, ebbe l'idea di coniare un termine che meglio si adattasse alle caratteristiche della bevanda: "arzente".
Nel 1956 il superalcolico più amato, all'epoca, dagli italiani, cambia nome e diventa Brandy. Nasce l'Istituto del Brandy Italiano che ne codifica alcune caratteristiche e monitora la produzione. Sono gli anni d'oro per questo prodotto, che un disciplinare molto elastico consente lasciar spaziare da una selezione di qualità a una produzione industriale (viene richiesto solo l'invecchiamento di almeno 12 mesi in legno di rovere, mentre per il Cognac francese si richiede un maggior numero di requisiti: un unico vitigno di provenienza, l'Ugni Blanc, la distillazione in alambicco Charentais, un invecchiamento minimo di due anni in rovere). Dalla metà degli anni '70 inizia il declino qualitativo e commerciale del prodotto, soppiantato dalle nuove mode (whisky, poi grappa e rum) e dalle diverse abitudini dei consumatori.
Da qualche tempo, tuttavia, alcuni produttori hanno deciso di riproporre il vecchio Brandy. «Si tratta di distillati di vino ottenuti da uve, come il Trebbiano, che hanno una bella acidità e poca tannicità», spiega Sergio Circella, che nella carta dei vini del suo ristorante ("La Brinca" di Né) propone tutti i Brandy della "nouvelle vague": da quello di Antinori, invecchiato per oltre sei anni, all"Arzente" di Jacopo Poli da Schiavon (Veneto), un distillato di Soave affinato 10 anni che ha le suggestioni di una grappa stravecchia, dal "Divino" di Pojer & Sandri da Faedo (Tn), un distillato che evoca sentori whisky, al Brandy Villa Zarri nella duplice versione "assemblaggio tradizionale" (invecchiato 10 anni) e "millesimato" (riserva 15 anni). Villa Zarri è l'unica casa che utilizza un alambicco Charentais. «E non a caso il suo Brandy è quello che più ricorda i distillati francesi», osserva Circella.
E proprio attorno a questo antico alambicco nasce la storia dell'azienda, creata nel 1989 da Guido Fini Zarri, figlio di Nello Fini, che nel 1950 orientò la società del suocero, Leonida Zarri, la Pilla di Castelmaggiore (Bo) verso il Brandy di qualità ottenendo con il marchio "Oro Pilla" uno straordinario successo ( 7 milioni di bottiglie nel '74), Nel 1988 la Pilla fu venduta alla Montenegro. Ma il giovane Guido, affiancato dalla moglie Alessandra, ha voluto ricominciare da capo. «Sono nato brandysta - spiega - e mi sono chiesto: perché non provare a fare un grande Brandy che possa competere con Cognac e Armagnac?». Dalla vendemmia Fini '86 ha iniziato a distillare Trebbiano di Romagna e Toscana con l'alambicco Charentais e nel '90, costituita la sua società, ha presentato la prima bottiglia di Brandy Villa Zarri, «un prodotto naturale, non conciato (come altri, con caramello che dà colore e morbidezza), affinato per un anno in barriques di Allier e del Limousin nuove, e quindi passato per almeno 10 anni in botti vecchie».

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